Laura Sforzi è la vincitrice assieme alla dottoressa in fisica Camilla Bordoni del premio Premio “Chimica e Fisica al Femminile” 2025, con la sua «prima indagine sull’ingestione di (micro)-plastiche da parte di tartarughe di acqua dolce in Amazzonia». La dottoressa Sforzi racconta in questa intervista perché ha scelto di studiare questo argomento e  le possibili applicazioni future.

Che cosa l’ha spinta a indagare proprio l’ingestione di microplastiche nelle tartarughe di acqua dolce dell’Amazzonia?

«Il gruppo di ricerca in Chimica Analitica della Prof.ssa Alessandra Cincinelli e della Prof.ssa Tania Martellini dell’Università degli Studi di Firenze si occupa da anni di tematiche legate alla chimica ambientale – spiega la dottoressa Sforzi -, affrontando questo ambito a 360 gradi. Tra le numerose collaborazioni internazionali attive, c’è quella con un gruppo di ricerca dell’Università Federale del Parà, in Brasile, che ha fornito i campioni oggetto della mia analisi e della mia tesi di laurea. Quando mi è stato proposto questo argomento come lavoro di tesi ho accettato con entusiasmo».

«L’inquinamento da plastiche, e in particolare da microplastiche, cioè particelle polimeriche di dimensioni comprese tra 5 mm e pochi nanometri, è estremamente attuale. Ormai ci sono evidenze scientifiche della loro presenza praticamente in ogni comparto ambientale, e recentemente anche in alimenti e acqua potabile. La plastica possiede caratteristiche ancora oggi difficilmente sostituibili, poiché è leggera, versatile, resistente e soprattutto economica, ed è quindi diventata onnipresente nella nostra quotidianità».

«La possibilità di valutare l’impatto delle microplastiche su organismi che vivono in ambienti remoti rende evidente l’importanza del monitoraggio ambientale e del ruolo fondamentale dell’analisi chimica ambientale. Dopotutto, se queste particelle riescono a raggiungere ecosistemi così isolati e relativamente incontaminati, dobbiamo domandarci quale sia la reale portata del problema in zone fortemente urbanizzate, come le città in cui viviamo».

Quali sono state le principali difficoltà logistiche o metodologiche che ha incontrato nello svolgimento di questa indagine in un contesto così remoto e complesso come l’Amazzonia?

«Il campionamento ha rappresentato senza dubbio una delle fasi più complesse del lavoro. I ricercatori del gruppo brasiliano hanno condotto spedizioni piuttosto lunghe all’interno della foresta amazzonica per il recupero dei campioni, con l’obiettivo di valutare quanto in profondità si sia effettivamente spinto l’inquinamento da microplastiche».

«Una volta che i campioni sono arrivati ai laboratori di Chimica dell’Università di Firenze, un’altra sfida significativa è stata quella di mettere a punto una metodologia analitica il più possibile accurata e confrontabile con quanto attualmente disponibile in letteratura. L’affidabilità dei risultati è stata infatti una priorità, ma va considerato che, ad oggi, non esistono ancora protocolli standardizzati né normative che regolino in modo univoco limiti di concentrazioni ambientali, modalità di campionamento e di analisi per le microplastiche».

«Questa mancanza di armonizzazione introduce inevitabilmente dei bias nella ricerca scientifica e rende più complessa la comparazione tra studi differenti. Allo stesso tempo, alimenta la crescente preoccupazione della comunità scientifica riguardo agli effetti che queste particelle possono avere sia sull’ambiente che sulla salute umana».

Può spiegarci che tipo di microplastiche sono state rilevate e se si è riusciti a stabilire una correlazione con particolari fonti di inquinamento antropico?

«Attraverso l’impiego della micro-spettroscopia infrarossa è stato possibile identificare con precisione la natura chimica delle particelle rilevate nei campioni. Tra i polimeri sintetici più frequentemente individuati ci sono stati il polietilentereftalato, il policarbonato e le poliammidi. Sono polimeri molto diffusi, per il loro utilizzo in oggetti di uso quotidiano, e spesso ritrovati in studi di questo tipo. Il collegamento più plausibile che abbiamo ipotizzato in merito alla loro origine è con l’attività di pesca. In particolare, nelle aree più remote della regione amazzonica, l’impatto delle attività antropiche, seppur limitate in termini di scala, può risultare significativo su ecosistemi tanto delicati».

«Il problema si potrebbe estendere anche alla gestione dei rifiuti solidi e delle acque reflue. In contesti ancora prevalentemente rurali, dove spesso gli impianti di trattamento sono assenti, insufficienti o poco efficienti, il rilascio di plastica nell’ambiente può avvenire in modo incontrollato, contribuendo all’accumulo di microplastiche e alla loro ingestione da parte di organismi endemici».

Che impatti concreti possono avere le microplastiche sulla salute delle tartarughe di acqua dolce e, più in generale, sull’equilibrio dell’ecosistema amazzonico?

«Le microplastiche rappresentano innanzitutto un rischio diretto per la salute delle tartarughe stesse. A livello fisico, i frammenti di dimensioni maggiori possono ostruire l’apparato respiratorio, oppure provocare un falso senso di sazietà, inducendo potenzialmente l’animale alla morte per inedia. A livello chimico, invece, le microplastiche possono degradarsi ulteriormente all’interno dell’organismo, rilasciando sostanze tossiche, come plastificanti o altri additivi, che compromettono la salute dell’animale».

«Nel mio lavoro mi sono concentrata in particolare su due specie di tartarughe che, oltre a essere parte integrante dell’ecosistema amazzonico, sono ancora oggi consumate dalle popolazioni indigene amazzoniche. Si tratta di comunità che vivono nel cuore della foresta e la cui alimentazione dipende in larga misura dalle risorse naturali circostanti, sia vegetali che animali. L’ingestione di tartarughe contaminate da microplastiche implica dunque un concreto rischio di trasferimento degli inquinanti lungo la catena alimentare, arrivando fino all’uomo e potenzialmente minacciandone la salute».

«Tutto ciò si inserisce in un contesto ambientale già fortemente vulnerabile. L’Amazzonia è infatti soggetta a molteplici pressioni, tra cui la deforestazione, l’inquinamento atmosferico e i cambiamenti climatici, che ne compromettono la capacità di autorigenerazione. In questo scenario, l’introduzione di un contaminante praticamente invisibile e progettato per essere resistente e durevole, come la plastica, non fa che aggravare ulteriormente la situazione».

A suo avviso, quali strategie o interventi sarebbero più efficaci per prevenire l’inquinamento da plastica nei bacini fluviali dell’Amazzonia?

«Un passo fondamentale per affrontare il problema è sicuramente una gestione più efficiente dei rifiuti, accompagnata dalla realizzazione di infrastrutture adeguate per il trattamento degli scarichi, sia di origine domestica che industriale. Parallelamente, la sensibilizzazione della popolazione locale rispetto alle problematiche ambientali dovrebbe diventare una priorità: rendere le persone consapevoli significa renderle protagoniste attive nella prevenzione e nella tutela del proprio territorio».

«La ricerca scientifica svolge un ruolo cruciale nel portare all’attenzione di decisori politici e stakeholder le conseguenze delle attività umane sull’ambiente. Lo fa non solo evidenziando i rischi per gli ecosistemi e la conservazione della biodiversità, ma anche sottolineando le possibili implicazioni per la salute umana. Per questo motivo è essenziale continuare a monitorare il fenomeno, raccogliere dati affidabili e produrre evidenze scientifiche: solo attraverso una conoscenza completa del fenomeno sarà possibile sviluppare strategie efficaci di prevenzione e protezione ambientale, capaci di guidare interventi concreti e duraturi».