E’ con un misto di tristezza ed indignazione che seguiamo l’evoluzione dei fatti che ci vengono svelati dalla cosiddetta inchiesta “dieselgate” per le ultime rivelazioni provenienti dalle indagini condotte dalla testata economica tedesca Handelsblatt e dall’emittente pubblica bavarese Bayerischer Rundfunk che coinvolgono la Volkswagen.

La casa automobilistica viene accusata di aver dotato alcuni veicoli diesel Euro 6 di grossa cilindrata di un software in grado di manipolare i valori di emissione dei gas di scarico consentendo di dimostrare livelli di emissioni più bassi di quanto non fossero in realtà.

Ad aggravare il quadro che si andrebbe delineando, sono le ipotesi che gli enti pubblici preposti a farlo, non fossero attrezzati per effettuare i necessari test di prova ed anzi, alcuni funzionari di questi uffici, avrebbero tentato di ostacolare o addirittura impedire lo svolgimento delle inchieste volte a far luce su queste vicende.

Tristezza dicevo, perché coscienti che il traffico veicolare ha un ruolo significativo nel contribuire all’inquinamento atmosferico, abbiamo accolto con un certo ottimismo le politiche orientate a far adottare tecnologie sempre più sicure e sempre meno impattanti (impattanti …. terribile neologismo, che però rende bene l’idea), tanto che su questo sentimento i professionisti del marketing, anche quelli del mondo dell’ “automotive“, avevano incentrato le loro politiche di comunicazione e capitalizzato consensi da coloro che convinti di apportare il loro pur piccolo contributo, con una punta di orgoglio e magari qualche sacrificio, sono passati a queste tecnologie presunte meno inquinanti.

Ma anche indignazione.

Indignazione non tanto e non solo perché una grande casa automobilistica, immagine di una grande nazione di cui abbiamo sempre ammirato integrità ed efficienza, sembra abbia scientemente progettato, costruito ed installato un sistema software finalizzato ad eludere ogni controllo e vanificare ogni sforzo di alimentare il suddetto circuito virtuoso, quanto perché sembrerebbe che a facilitare la vita di chi reinterpretava le norme secondo propri punti di vista, c’era anche una certa “disattenzione” di chi invece doveva tutelare il bene comune. Anzi ancora peggio, tra questi ultimi sembrerebbe ci siano stati anche coloro che quando certi sospetti avevano gettato ombre sull’operato di altrettanto grandi marchi italiani, aveva manifestato posizioni intransigenti, posizioni che in cuor nostro avremmo anche condiviso laddove si fosse accertato che le accuse erano fondate.

Certamente non si può accettare serenamente che i punti di riferimento di uno stato, che da cittadini consideriamo più autorevoli, in cui confidiamo per perseguire i nostri desideri di legalità e benessere, possano in certi momenti affermare e sostenere delle proprie posizioni, cui con l’onestà intellettuale che ci insegna Voltaire, riconosciamo una loro dignità prima ancora di condividerle, poi in altri momenti, per loro proprie convenienze più o meno legittime, più o meno confessabili ci propinano altre posizioni in netto contrasto con le precedenti, relegandoci ad un ruolo di semplici spettatori, cui non è concesso il diritto di esprimere il proprio dissenso.

Immaginiamo cosa succederebbe se questo accadesse in ogni altro aspetto di gestione della “res publica”, della cosa pubblica, non verrebbe ad essere minato lo stesso principio di stato costruito dai cittadini con il meccanismo delle rappresentanze per essere al servizio dei cittadini e pensato per perseguire gli scopi di pubblico benessere ?

Non possiamo accettare questa prospettiva dal sapore vagamente Orwelliano, per questo motivo continueremo a seguire la vicenda, e, intimamente, continueremo a sperare che si possa dimostrare che si è trattato di un malinteso, sia per quanto riguarda queste grandi imprese cui riconosciamo una valenza sociale oltre che una funzione economica, ma soprattutto per quanto riguarda i nostri punti di riferimento dello stato e nello stato, la cui autorevolezza ci sta tanto a cuore che mai potremo accettare il venir meno della coerenza nel proprio operato.

 

Dott. Chim. Renato A. Presilla

Consigliere FNCF