La necessità di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici è alla base di varie strategie di decarbonizzazione che stanno investendo anche l’industria chimica. L’articolo illustra prospettive e problemi irrisolti dell’uso del bio-etanolo come materia prima per la produzione dell’etilene e, in definitiva, come intermedio chiave della chimica organica industriale dei prossimi decenni. (Clicca QUI per recuperare tutte le fonti, Ndr).
Introduzione
La crescente consapevolezza circa le nefaste conseguenze dei cambiamenti climatici è all’origine di molti progetti e iniziative per ridurre le emissioni di gas clima-alteranti. Questo fenomeno, spesso indicato come decarbonizzazione, sta inevitabilmente investendo anche l’industria chimica, con una spinta a sostituire le materie prime “fossili” (petrolio, gas naturale e carbone) con altre rinnovabili. È difficile immaginare che a regime, sul medio-lungo periodo, tutte le attuali produzioni petrolchimiche possano essere alimentate con materie prime rinnovabili. Sembra invece più probabile che ciò che oggi si fa con molti dei prodotti petrolchimici sarà fatto con prodotti diversi, ottenuti da materie prime rinnovabili. Molti di questi prodotti sono certamente ancora da identificare ma altri, come l’acido polilattico e l’amido termoplastico, stanno già conquistando importanti quote di mercato.
Una transizione di questo tipo richiederà, tuttavia, parecchi decenni ed è realistico pensare che molte materie plastiche, fibre, gomme e tecnopolimeri continueranno ad essere prodotti fin verso la metà del secolo dai tradizionali intermedi della chimica di base: etilene, propilene, buteni, butadiene, benzene, toluene e xileni. In questo quadro è interessante chiedersi se i loro attuali processi produttivi non possano essere sostituiti da altri alimentati con materie prime rinnovabili. Nel seguito focalizzeremo l’attenzione sulla produzione di etilene, caposaldo di primaria importanza per l’odierna industria petrolchimica.
Etilene e etanolo
“Ethylene is sometimes known as the “king of petrochemicals”. Così Sami Matar e Lewis F. Hatch introducono il capitolo dedicato ai derivati dell’etilene nel loro libro “Chemistry of Petrochemical Processes”. Infatti, già a cavallo della seconda guerra mondiale la petrolchimica si era sviluppata ed imposta basandosi proprio sull’etilene come building block, soppiantando l’acetilene fino ad allora prodotto da carbone (Fig. 1). Le fortune dell’etilene erano basate sulla disponibilità delle materie prime (petrolio o gas naturale) e su un processo di produzione, lo steam cracking, decisamente più competitivo rispetto al vecchio processo al carburo di calcio per fare acetilene. Anche se lo steam cracking era stato brevettato oltre un secolo fa, la sua applicazione su larga scala avvenne nell’immediato dopoguerra e in Italia negli anni Sessanta del secolo scorso.
Ora, con la crisi generale della petrolchimica europea e la chiusura degli impianti italiani di cracking recentemente annunciata da Versalis, la società chimica di Eni, viene da chiedersi come si potrà soddisfare la domanda di etilene per la produzione, in continua crescita, delle materie plastiche. Si stima, infatti, che il mercato dell’etilene, trainato soprattutto da Cina e India, possa crescere fino al 2032 con una CAGR (tasso di crescita annuo composto) del 5,3%. È dunque possibile individuare potenziali fonti rinnovabili da cui derivare l’etilene e gli altri intermedi della chimica di base, senza dover partire da petrolio o gas naturale, in ottica di decarbonizzazione? A questa domanda si sta già tentando di rispondere da decenni, fin dai tempi delle crisi petrolifere degli anni Settanta, suggerendo, per esempio, l’uso degli zuccheri come materie prime.
Tuttavia ora, di fronte alla chiusura di numerosi impianti di steam cracking per la produzione di olefine e di reforming per la produzione di aromatici, e, soprattutto, di fronte ad un piano di decarbonizzazione che, almeno sulla carta, prevede l’abbandono delle fonti fossili a favore di quelle rinnovabili, molti centri di ricerca accademici e industriali stanno perseguendo con maggior decisione la via delle fonti rinnovabili. Sotto il profilo chimico il modo più semplice per sostituire l’etilene di origine fossile sembra quello di partire da bio-etanolo. In fondo, il passaggio da etanolo a etilene è una reazione banale, acido catalizzata, già praticata industrialmente, anche se su una scala limitata.
Una volta prodotto l’etilene, si può continuare a produrre i suoi derivati come oggi, con la differenza che si tratterà di prodotti ricavati da fonti rinnovabili. E gli altri intermedi della chimica di base: propilene, buteni, butadiene, benzene, toluene, xileni? Oggi essi sono ottenuti come co-prodotti dell’etilene nello steam cracking (propilene, buteni, butadiene) oppure prodotti in altri processi (reforming per benzene, toluene, xileni), ma possono essere sintetizzati anche a partire dall’etilene o direttamente dall’etanolo. Esistono in letteratura numerosi studi al riguardo, di cui si riportano alcuni esempi recenti. In alcuni casi si tratta di processi noti, come per esempio la produzione di butadiene da etanolo, già applicata tra gli anni Trenta e gli anni Settanta del secolo scorso. In altri casi si tratta di adottare processi catalitici originariamente sviluppati per altri scopi, come per esempio l’aromatizzazione di frazioni C4 che si possono ottenere per dimerizzazione di etilene. Per questi intermedi sono allo studio, a dire il vero, anche altri processi e altre fonti rinnovabili.
Per esempio dalla gassificazione di biomasse e rifiuti si ottiene gas di sintesi (una miscela di CO e H2), tradizionale materia prima per la produzione di metanolo da cui poi ricavare olefine (principalmente etilene e propilene) con i processi MTO (methanol to olefins), una tecnologia che, quando si parte da biomasse, è anche indicata con l’acronimo BTO, biomass to olefins. Sempre da gas di sintesi è possibile, con altre vie sintetiche come la sintesi di Fischer-Tropsch, produrre alcoli, olefine e paraffine. In tempi più recenti e con l’urgenza della decarbonizzazione, si sono fatte strada anche vie sintetiche a partire da CO2, catturata da fonti concentrate (per esempio centrali termiche, raffinerie, cementifici, acciaierie) o direttamente dall’atmosfera (la cosiddetta DAC, Direct Air Capture) e successivamente ridotta con idrogeno verde (ovvero prodotto con energia elettrica rinnovabile) per arrivare di nuovo a gas di sintesi, da trasformare poi secondo le due modalità prima esposte.
Questo approccio, molto considerato anche per la produzione dei carburanti sostenibili (e-fuel), ha il suo maggior ostacolo nei costi. Confrontando diversi studi si trovano dati che oscillano tra 1,85 e 3,5 volte il costo corrente dell’etilene prodotto da petrolio via steam cracking. In ogni caso, nonostante le promesse di molti di questi approcci, al momento la produzione dei principali intermedi della chimica di base a partire da etanolo resta di gran lunga l’alternativa più semplice per sostituire l’etilene di origine fossile. Allora è fatta? Incoroniamo l’etanolo come il nuovo re della chimica di base? Purtroppo ci sono ancora degli ostacoli.
Le fonti di etanolo rinnovabile
L’etanolo, come l’etilene, non è una materia prima, ma un intermedio. Oggigiorno le maggiori fonti di etanolo sono gli zuccheri e gli amidi, e, in particolare, lo zucchero di canna e il mais. Anche lo zucchero da barbabietola viene usato ma in misura minore. Così come in misura minore si utilizzano altri cereali come il grano. Secondo il REN21 Renewables 2024 Global Status Report, nel 2022 si sono prodotti 106 miliardi di litri di bio-etanolo, destinato ai trasporti come carburante. Di questi la maggior parte è stata prodotta da mais (66,2 miliardi di litri), la restante parte dagli zuccheri (38,6 miliardi di litri). Di recente sono stati avviati alcuni impianti per la produzione di etanolo Advanced (anche chiamato cellulosic o 2G che sta per seconda generazione) in quanto ricavato da zuccheri ottenuti per saccarificazione di biomasse lignocellulosiche di scarto. Il primo è stato quello avviato nel 2013 da Biochemtex a Crescentino in Piemonte, mentre l’ultimo in ordine di tempo è quello avviato in Brasile dalla Raizen, che trasforma la bagassa, sottoprodotto della canna da zucchero, in 82 milioni di litri/anno di etanolo.
Nell’insieme, tuttavia, la produzione mondiale di bio-etanolo cellulosico supera di poco il miliardo di litri e rappresenta, quindi, una percentuale molto bassa rispetto alla domanda totale di bio-etanolo come carburante. Dal punto di vista della sostenibilità, il bio-etanolo cellulosico rappresenta un importante miglioramento rispetto al bio-etanolo tradizionale, quando utilizzato come carburante, rispetto alla benzina di origine fossile: i dati riportati nella RED II (Renewable Energy Directive) della Unione Europea lo certificano (Tab. 1). In ogni caso, sia che si tratti di zuccheri da canna o da bietola o prodotti per saccarificazione di biomasse, sia che si tratti di amidi, il cuore di queste tecnologie è la fermentazione.
La fermentazione è stata applicata con successo anche per trasformare gas esausti di impianti siderurgici, ricchi in CO e H2, sempre per produrre etanolo. La tecnologia è stata sviluppata da Lanzatech, una società neozelandese che l’ha applicata in diversi impianti siderurgici in Cina e India e ne sta realizzando uno anche in Belgio in un’acciaieria di Arcelor Mittal. Un modo invece tutto chimico per produrre etanolo da biomasse e rifiuti è stato sviluppato e applicato dalla canadese Enerkem che ad Edmonton (Canada) ha realizzato un impianto che produce etanolo da rifiuti. Il primo stadio è la gassificazione dei rifiuti per dare CO e H2. Segue poi la sintesi di metanolo che viene trasformato in etanolo per carbonilazione ad acido acetico e successiva riduzione con idrogeno.
Cosa manca all’etanolo per essere il nuovo re della chimica di base?
La produzione mondiale di etanolo è rilevante: 106 miliardi di litri nel 2022, ovvero 83,6 milioni di tonnellate (Mt) che corrispondono stechiometricamente a 50,9 Mt di etilene. Tuttavia, nello stesso anno la produzione di etilene è stata di 225,52 Mt, circa cinque volte la quantità che si potrebbe ottenere trasformando l’intera produzione di etanolo. È vero che, nel lungo termine, la domanda di etilene per la produzione di materie plastiche dovrebbe diminuire col loro riciclo: la IEA (International Energy Agency), nel rapporto “Net Zero Roadmap”, aggiornato nel 2023, prevede che il riciclo di materie plastiche raggiungerà il 51% nel 2050 (contro appena il 16% del 2022). Questo permetterà un aumento di produzione secondaria (quella fatta a partire da materiale riciclato) fino al 35% del totale, contenendo la domanda di monomeri (etilene, propilene ecc.) “vergini”.
Anche in questo scenario, tuttavia, sarebbe comunque necessario aumentare in misura imponente la capacità produttiva di bio-etanolo. In ogni caso queste trasformazioni non sono istantanee ma avvengono in un certo lasso di tempo e quindi, in linea di principio, non possiamo escludere che il bio-etanolo divenga in futuro uno dei principali building block della chimica industriale. Resta però da verificare se è disponibile una sufficiente quantità di materie prime per produrlo. Prima però di addentrarci in questa valutazione è necessario evidenziare che in prospettiva futura, l’utilizzo di fonti agricole in competizione col ciclo alimentare e l’uso di acqua e territorio, per produrre biocarburanti, saranno banditi. Questo prevede la RED III e anche le normative in fase di adozione in altri Paesi OCSE.
Presumibilmente lo stesso criterio sarà esteso anche alle materie prime per altri settori industriali. È pertanto prevedibile che per produrre bio-etanolo da destinare all’industria chimica, come per i biocarburanti, si dovrà ricorrere alle biomasse di scarto, ovvero quelle contemplate nell’allegato IX della RED. Una stima della disponibilità a livello mondiale di queste biomasse è stata pubblicata dalla IEA nel 2017, con una previsione per il 2060 di una quantità (in termini di contenuto energetico) compresa tra 130 e 240 EJ. Se calcoliamo il contenuto di energia dell’etanolo necessario per soddisfare la domanda di 225,52 Mt di etilene, otteniamo circa 10 EJ.
Quindi, anche tenuto conto dell’energia necessaria per la conversione della biomassa in etanolo e poi in etilene, ci sarà biomassa in abbondanza, anche per soddisfare gli altri utilizzi (biocarburanti, biogas, elettricità e calore). Un sostanziale contributo potrà venire anche dalla produzione di etanolo dai gas esausti delle acciaierie, raffinerie ecc. Secondo Lanzatech i gas esausti delle acciaierie e delle raffinerie potrebbero fornire una quantità di etanolo rilevante: 30×109 e 5×109 galloni/anno rispettivamente, il che significa 104 Mt/anno di etanolo. Oggi però questa tecnologia è applicata in soli 6 impianti che producono complessivamente 300.000 t/anno di etanolo.
Quindi, mettendo insieme biomasse di scarto e gas esausti si potrebbe soddisfare la domanda di bio-etanolo necessaria a soppiantare l’etilene petrolchimico. Tuttavia per raggiungere un tale obiettivo è necessario accelerare su sviluppo e applicazione delle tecnologie di produzione di etanolo, innanzitutto quello cellulosico, che oggi valgono solo l’1% circa della produzione totale. In un rapporto del 2018 si evidenziava che, malgrado tra il 2013 e il 2015 fossero già stati avviati 6 impianti nel mondo, la diffusione di questa produzione andava a rilento, malgrado i sussidi e le agevolazioni normative. Tra le ragioni principali quella legata ai costi elevati rispetto al bio-etanolo da zucchero di canna e mais.
Nel mentre…
In direzione del tutto opposta sembrano però andare, almeno per il momento, l’industria chimica extra-europea e il mercato mondiale. In un recente report di IEA (luglio 2024) , relativo alle prospettive del petrolio, si prevede che, sulla base delle condizioni e delle politiche di mercato odierne, la domanda globale di petrolio si stabilizzerà verso la fine del decennio a circa 106 Mbarili/giorno nel contesto dell’accelerazione della transizione alle tecnologie energetiche pulite. Prima, però, fino al 2030, essa aumenterà leggermente, sostenuta da un maggiore utilizzo di carburante per aerei e delle materie prime richieste dal boom del settore petrolchimico.
Infatti i consumi di nafta, gas di petrolio liquefatto (GPL) ed etano (cioè delle materie prime utilizzate negli steam cracking) aumenteranno di 3,7 Mbarili/g tra 2023 e 2030. La crescita sarà dominata dalle economie asiatiche, soprattutto India e Cina. In pratica quindi la IEA, in considerazione della crescita della domanda di materie plastiche, fibre, gomme e tecnopolimeri, prevede, almeno fino alla fine del decennio, che la stessa sarà ancora sostenuta dal petrolio. È pertanto ragionevole pensare che, con la riduzione della produzione petrolchimica in Italia e in Europa, si assisterà ad un aumento delle importazioni dai suddetti Paesi di materie plastiche per alimentare le nostre industrie manifatturiere, mentre per una reale conversione verso un’industria chimica decarbonizzata si dovrà attendere più a lungo.
C’è di più. In Cina sono stati costruiti ben 14 impianti basati sulla tecnologia MTO. Questa scelta strategica è stata trainata dalla crescente domanda del paese di etilene e propilene. Ma questo non significa che la stessa vada nella direzione della decarbonizzazione. Anzi. Il metanolo poi trasformato in olefine, proviene dalla gassificazione di carbon fossile che certo non è più sostenibile del petrolio o del gas naturale.
Conclusione
Sulla base di quanto appena riportato, non si può arrivare ad una risposta definitiva alla domanda posta inizialmente. Il bio-etanolo ha tutte le caratteristiche e le potenzialità per imporsi come nuovo re della chimica di base, soppiantando l’etilene derivato dal petrolio e dal gas naturale. Ma, almeno per il prossimo decennio, questo non succederà visto che, a fronte della riduzione di capacità produttiva in Europa, e in particolare in Italia, si assiste ad un aumento di produzione in Asia, soprattutto in India e Cina. Il rischio è che la strategia europea e italiana di puntare a una decarbonizzazione sia vanificata dall’espansione delle economie asiatiche. Speriamo, quindi, che la decarbonizzazione non diventi nei fatti solo una deindustrializzazione del vecchio continente.
di Carlo Perego e Marco Ricci.
per LA CHIMICA E L’INDUSTRIA online
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