Prosegue la nostra serie di interviste ai relatori che parteciperanno alla conferenza sulla Sicurezza degli alimenti e delle acque in occasione della Giornata Nazionale del Chimico e del Fisico, prevista il 20 maggio. Il professo Marco Trifuoggi, docente di chimica all’Università degli Studi di Napoli Federico II, interverrà con una relazione su «Acque sicure e salubri: inquinanti emergenti».
Cosa si intende esattamente per “inquinanti emergenti” nelle acque e perché è importante studiarli oggi?
«Gli inquinanti emergenti sono tutti quegli inquinanti che non sono necessariamente nuovi – spiega il professor Trifuoggi -, ma su cui si è focalizzata l’attenzione solo negli ultimi tempi. Perché questi inquinanti sono di sintesi recente, o sono nuovi, o perché erano già conosciuti, ma da poco si è scoperta la loro tossicità e pericolosità, oppure perché, diciamo, in qualche maniera non venivano utilizzati e la loro diffusione si è ampliata di recente».
«È importante studiarli perché spesso di non si conoscono gli effetti sulla salute e sull’ambiente. Mentre di quegli inquinanti che sono noti, per esempio i metalli pesanti e tossici, oramai si sa un po’ tutto».
Quali sono le principali fonti di questi inquinanti e quanto incide l’attività umana sulla loro presenza nelle acque potabili?
«Beh, ovviamente, essendo inquinanti fino ad oggi non conosciuti, sono generalmente per la quasi totalità generati dalle attività antropiche, ma anche la natura produce degli inquinanti. L’arsenico, l’amianto, il piombo, i nitrati, le sostanze radioattive, sono sostanze assolutamente naturali e sono ben conosciute da tempo. Sono studiate e sono normate da leggi. Quelle che si sono scoperte di recente sono sostanze legate sicuramente in una maggior parte dei casi all’attività dell’uomo».
«Alcuni esempi più probanti possono essere le sostanze per perfluoroalchiliche, (PFAS), oppure le microplastiche. Per esempio, le plastiche si conoscono da molti anni, addirittura la bachelite si conosce da più di 100 anni, altre plastiche si conoscono da 50 anni, ma solo di recente si è scoperto che in qualche maniera quando si degradano e diventano piccole o si trovano sotto forma di fibre, possono apportare danni alla salute. Alcuni sono conosciuti da tempo, altri da meno tempo, ma di questi da poco in pratica se ne è scoperta la diffusione».
«Tra gli esempi più probanti ci sono tutte le sostanze connesse alle nanotecnologie. Noi conosciamo molecole composte di dimensioni molto piccole e molto grandi, ma a questa scala dimensionale le particelle non le conoscevamo e non sappiamo ancora che danni possano fare. E poi ci sono tutti quei prodotti legati in maniera indiretta al fatto che la nostra vita di fatto è migliorata, quindi ci curiamo di più. Pensiamo ai prodotti per la barba o alle creme».
«Viviamo molto più a lungo. I nostri anziani sono definiti pazienti polifarmaci. Se penso a mia nonna e alle sue sorelle, loro erano rimaste vedove tutte intorno ai 50-60 anni. Oggi invece l’aspettativa di vita va oltre gli 80-90 anni e questo vuol dire che le persone iniziano a usare abbinamenti di tanti farmaci e questi farmaci, che in qualche maniera poi vengono rilasciati nell’ambiente. Quindi il nostro ambiente “sopporta” il carico di tutti questi farmaci che noi rilasciamo quotidianamente».
Non ci dovrebbe essere anche più divulgazione su come smaltire questo genere di rifiuti?
«Assolutamente sì. Però non c’è ancora la sensibilità. Sembrano cose astruse, come il sapere dove portare il contenutore dell’olio esausto nella discarica; i farmaci scaduti nei contenitori appositi per lo smaltimento delle farmacie; le pile scariche (una batteria di vecchia generazione, per intenderci, quella che contiene il mercurio, può fare dei danni enormi nell’ambiente). Un litro d’olio esausto nelle fognature sovraccarica di lavoro i nostri sistemi di depurazione in maniera pesante. Una scatola di farmaci scaduti, se la beccheranno, i poveri animali dei laghi e dei fiumi nei quali alla fine vanno a finire i nostri scarichi. Quindi bisognerebbe fare molta attenzione a quelli che da prodotti di pregio in qualche maniera diventano rifiuti».
Le tecniche attuali per rimuovere questi contaminanti sono sufficienti o si auspicano tecnologie future?
«Ovviamente per molti di questi rifiuti le vecchie tecnologie sono sufficienti, ma spesso non sono sostenibili, sia dal punto di vista tecnologico che ambientale. È ovvio che un’acqua sporchissima può essere ripulita di tutto quello che c’è, ma quanto costa dal punto di vista economico e dei danni all’ambiente? Quindi la sfida, soprattutto sui nuovi prodotti emergenti, è quella di trovare nuove tecnologie a basso costo. Anche perché molto spesso le vecchie tecnologie vanno bene per i vecchi composti. Nuovi composti chiamano nuove tecnologie, o se non altro più convenienti. Possiamo anche avere le tecnologie che puliscono l’acqua, però poi producono dei fanghi che a loro volta vanno smaltiti, oppure che costano tanto in termini di energia e impatto ambientale. Quindi in qualche maniera dobbiamo cercare dei sistemi più sostenibili».
Quindi l’atto stesso di proteggerci dagli inquinanti potrebbe avere un impatto negativo per l’ambiente?
«È un po’ come quando si spazza per terra e si nasconde la polvere sotto al tappeto. Dobbiamo pensare che il nostro è tutto un grande ambiente, quindi quello che buttiamo da qualche parte alla fine ci ritorna indietro».
Esistono già normative europee o italiane specifiche per questi inquinanti, oppure siamo in una fase ancora esplorativa dal punto di vista regolatorio?
«È ovvio che per gli inquinanti emergenti le normative non ci sono, proprio per la stessa ragione. Emergenti vuol dire “sconosciuti fino ad oggi”. Perché una sostanza inquinante “entri” nella legislazione c’è bisogno di un percorso abbastanza lungo, nel senso che la comunità scientifica deve avere contezza della loro pericolosità. I medici con l’epidemiologia, con le statistiche poi devono in qualche maniera accertare questa pericolosità e alla fine il legislatore con la ricerca e con la medicina cerca di trovare una posizione mediata».
«Quando si è ancora in una fase esplorativa è ovvio che queste normative non ci sono. Per alcune di queste, come per esempio le norme sull’acqua potabile, si iniziano a dare delle indicazioni. Se non ci sono i limiti per tutti, la norma dice che è compito degli enti gestori di monitorare le fonti e la presenza di microplastiche. Per gli emergenti ci saranno le norme quando saranno emersi completamente. Per questa ragione c’è necessità di ricerca continua».
Quali sono le priorità per garantire acque veramente sicure e salubri nei prossimi dieci anni?
«Su questo il nostro governo e la comunità europea hanno introdotto, oltre a quelli che sono dei parametri rigidi, un po’ come i limiti di velocità in autostrada, qualcosa di abbastanza più complesso, cioè l’analisi di rischio e i piani sicurezza per le acque: i PSA».
«Quindi i vari enti gestori non devono semplicemente verificare che le acque rispettino quei determinati valori e coprirsi gli occhi davanti a tutte le altre possibili evidenze di quello che accade nell’ambiente. Quindi devono stabilire sulla base di un’analisi di rischio, possibili contaminazioni, tenersi aggiornati, informare gli addetti ai lavori, fare questi piani della sicurezza, e in qualche modo tengono conto di tutte le possibili criticità. Non solo quelle normate, ma anche quelle ancora da normare».